Nata dal sogno di un poeta

di Alberto Maria Felicetti

È nato e vive a Roma. Proveniente dagli studi classici, dopo una breve esperienza di avvocato, è entrato nella magistratura dove ha svolto le funzioni di Pretore, di Giudice e di Sostituto Procuratore della Repubblica, trattando processi di importanza internazionale. Dopo una lunga esperienza come direttore del Dipartimento per la Giustizia Minorile del Ministero della Giustizia ha concluso la carriera come Presidente del Tribunale per i Mino-renni di Roma.
La sua competenza nel campo umanistico, con speciale riferimento al delicato settore dei minori e della famiglia, ha accentuato la sua propensione e la sua naturale inclinazione verso il mondo della poetica e delle lettere. Ha esordito nel mondo dell’arte con una raccolta di poesie in dialetto romanesco Ottobrate Romane, Rendina Editori; cui è seguita un’altra raccolta Tevere Amico. Contemporaneamente si è dedicato alla poesia non dialettale pubblicando un primo volume intitolato Riflettere la Luce, Pedanesi Editore, e un secondo Sole d’Autunno, ottenendo larghi consensi della critica e della stampa come “Il Corriere della Sera”, “Il Secolo d’Italia” e “Italia Sera”. Dall’anno 2000 collabora con “L’Apollo Buongustaio”, almanacco gastronomico letterario ideato da Mario dell’Arco. Per la casa editrice Edizioni Sabinæ ha pubblicato Le sirene e altri racconti, 2010.

Il volume è illustrato da Anna Addamiano.

dalla presentazione di Claudio Rendina:

Nata dal sogno di un poeta di Alberto Maria Felicetti.

    E’ con grande piacere che come romano, nonché scrittore di romanistica, ma anche vaticanista, ho il piacere di presentarvi la raccolta poetica in dialetto romano di Alberto Maria Felicetti, pubblicata dalle Edizione Sabinae di Roma, Nata dal sogno di un poeta, là dove quel “nata” è ovviamente riferito alla città di Roma, nella cui struttura il poeta scava quasi alla ricerca della verità di sangue in essa nascosta. E’ quell’operazione compiuta scarnificando, ovvero riducendo all’essenza, il linguaggio stesso che Alberto Maria (così l’amicizia mi permette di chiamarlo, mettemdo al bando il cognome) qualifica come “Er linguaggio de li fiori”, che più specificamente

            quarche vorta so segno de doppiezza

            d’ipogrisia, de voja de liscià

            oppuramente segno de tristezza,

            de delusione e d’infelicità.

   Ed è opportuno tener presente questo aspetto del linguaggio per qualificare il tipo di dialetto romano messo sulla carta da Alberto Maria, che è quello usato in Ottobrate romane del 1999 e in Tevere amico del 2007; ma che in fondo è l’altra faccia del linguaggio nazionale italiano e secondo altri aristocratico usato da Aberto Maria nella raccolta poetica Riflettere la luce del 2004. Voglio dire che il linguaggio di Alberto Maria in questo libro dedicato a Roma, come egli stesso scrive, è ispirato dalla città, linguaggio

            che te viè su dar profonno

            de strillà a voce arta a tutti quanti,

    Da qui infatti deriva l’esplorazione del mondo popolare di Roma tra personaggi e occasioni che nascono e muoiono nel quotidiano esaminato alla luce della ragione che tutto penetra. Nelle poesie si viene ritagliando un mondo fatto di persone, di animali, di cose, quotidianamente vissuto, anche fuori della cerchia familiare e definito in una società variegata, della quale il poeta sente di far parte. Anche se in qualche modo la rivisitazione della città, ovvero della “Roma de li Romani” avviene a ritroso, perché, come scrive Alberto Maria

             Si voi conosce mejo sta città

             devi d’aripenzà a li tempi belli

             de quanno se sgobbava pe campà

             ma ‘r popolo cantava li stornelli

   Ma questo non vuol significare un revival sentimentale della Roma che non c’è più, perché si tratta di fare la rivisitazione di una città

            che ‘na vorta, pe dì er vero,

            è ‘n paradiso e’n antra vorta è inferno,

            sta città che si tu ciabbiti drento,

            te viè de mannà moccoli ‘gni ‘stante

            ma si ce stai lonìtano ciai ‘n tormento

            come ce lo po avè solo ‘n amante.

     E allora non si tratta di andare a riscoprire la città de ‘na vorta, ma quella Roma nella città di oggi. Così Alberto Maria va in giro in questo “scrigno di perle” con il quale definisce la Roma Caput Mundi, offrendoci ritagli urbani nel raffronto tra ieri e oggi e sul riscontro visivo dei disegni di Anna Addamiano che raffigurano quei ritagli con il tratto di grande efftto che le è proprio. E nel raffronto scorre quasi una favola, che fa apparire però la capitale come una città di campagna; e non sembri questa mia indicazione una denigrazione nei confronti di Roma, perché, come osserva Alberto Maria, è il fiume stesso della città, il Tevere, a proporcela, come si legge in una Invocazzione ar Tevere, con

              quell’acqua de sorgente

              che scenne fresca giù da la montagna,

              ch’é ristoro per corpo e pe la mente

              e mantiene ‘n odore de campagna.

     E si va dal rione Monti, qualificato come “er mejo sito”, alla Madonna Fiumarola e a Campo de’ Fiori, che pur apparendo “’na tavolozza colorata” ci riserva “la cosa più buffa” nel fatto che “ce trovi gente d’ogni razza/eccetto solamente li romani”. E ancra da piazza Navona che “pare ‘n gran salotto” ma accoglie “tutto er fior fiore de li pataccari/ e l’aristocrazzia de le canaje”  a Via Veneto “immortalata/ dai tempi belli de la dolce vita”, ma dove “oggi ce vanno solo li turisti / co ‘na faccia che pare ‘n funerale”.

   A fronte di questi ambienti urbani ecco i “Ritagli di umanità” di oggi, dal “Vu cumprà” che tenta di fermarti con l’invocazione “capo nun scappà” all’ombrellaro e al penzionato, dal bullo urtrà al Barbone che “sta sprofonnato drento / ‘na cunnola de stracci”, dalle zinghere che stanno “pe fregatte er portafojo” al “Lavavetri” che

                     quarchiduno caccia

                     co ‘n occhiataccia

                     e cor braccio de fora

                     quarcunantro

                     lo manna a la malora.

   E ci sono poi i “Capricci della gola” che vanno dalla raffigurazione del Cocommeraro alla degustazione della Pizza Margherita, in realtà

                     nata a Napoli come ‘na bandiera

                     sortanto pe fa onore a ‘na regina

ma che “se magna dall’America a la Cina”. E sono contemplati anche “Er faste fudde” e “La Nouvelle Cuisine”, senza calcolare “Er magnà de li poveretti” a base di “budella/animelle cervelli e li rognoni”, che è diventato oggi una “squisitezza”, così che si può dire che “che a Roma questa sì ch’è ‘na magnata”.

   E arrivano di seguito a questi capricci i “Pensieri in libertà” tra personaggi e tradizioni. Si va dalla Canofiena, con la vita che “’na vorta è ‘n alegria” e “’n antra vorta è un dolore”, alla Befana

                 che s’è arifatta viva

                 la poretta se l’era presa a male

                 pevvia de que la spece de buriana

                 che c’è stata la notte de Natale

che le fa concorrenza nei regali, e dai cani che vanno in giro vestiti con una mantellina alle scenette del mercato e al tramonto del detto di una volta “de mamma ce ne sta una sola”, là dove

                 sto detto nun vale più perché

                 quarché fijo se n’aritrova tre.

    Conclude lo scenario della Roma odierna una serie di “Scenette” che vanno dalle chiacchiere del “Vicinato al mattino da finestra a finestra” tra le immancabili vicine di casa che chiacchierano di “sora Rosa che fa cornuto er marito” a “L’idraulico” , che non riesce a portarsi a letto la signora, come certa fama maligna popolarmente vorrebbe, perché è fedele al marito, tanto che l’idraulico se ne va via un po’ seccato, ma facendosi pagare:

                     So trenta euro senza la fattura,

                     bona nottata, nun ve disturbate,

                     quanno vié salutateme lo sposo.

       Questa la Roma di Alberto Maria all’alba del secondo decennio del XXI secolo, Nata dal sogno di un poeta, secondo il titolo, certo, ma “Vissuta nella giornata di un cittadino” che si snoda in un racconto popolare in versi romaneschi attraverso una passeggiata nella città, ovvero una zoccolata, secondo una definizione di Roma fatta dall’attrice Laura Betti: <<E’ una città di campagna, dove puoi uscire di casa zoccolando>>. Senza contare che la qualifica di “città di campagna” è evidenziata anche da Felicetti, come ho avuto modo di citare. Peraltro il verbo “zoccolare” va inteso nel termine proprio della lingua italiana sulla base del termine maschile relativo ad “una calzatura di legno”, che determina appunto di <<far rumore camminando con gli zoccoli>>, e non derivante dal termine romanesco e napoletano femminile “zoccola” .

       E per chi non lo sapesse il termine è storicizzato a Roma dal Conservatorio delle Zoccolette, che è esistito in Roma fino al 1888 tra via dei Pettinari e via Giulia; faceva riferimento alle orfane che, ospitate nell’istituto, una volta dimesse di lì erano destinate, come ha scritto Fernando Ravaro, <<a battere il marciapiede qualora non trovassero marito o una sistemazione presso qualche famiglia, diventando appunto “zoccole”>>.         Senza contare che, per evitare l’equivoco, si può, in termini proprio romaneschi, “ciriolare”, ovvero procedere come le ciriole, che sgusciano nel Tevere e procedono sinuose; anche se questa spiegazione può aumentare l’equivoco, creando qualche confusione con l’andatura, ahimè!, di una “zoccola”.

      E naturalmente Alberto Maria in definitiva ci invita con questa Roma Nata dal sogno di un poeta a sgusciare per la città non come una “zoccola”, eh no!, ma a circolare sgusciando e zoccolando tra le strade; che poi vale per sapersela cavare nella vita! Un libro di poesie in lingua romana che si rivela in ultima analisi quasi una favola, certo, raccontata a più voci e che Alberto Maria riesce a far sue.

Roma, 18 novembre 2011
Claudio Rendina

 

Prezzo: € 13,00
Dati: Novembre 2011
ISBN 978-88-96105-86-3